GUIDA ALL’ASCOLTO: CD allegato AUD 192

GERSHWIN: AN AMERICAN IN PARIS & CONCERTO IN F
Su Tape-to-Disc Audiophile Remasters
Disco allegato al n. 191 di Audiophile sound

GEORGE GERSHWIN: UN COMPOSITORE TRA JAZZ E CLASSICA

Sebbene la storia della sua famiglia, che affonda le sue origini nelle comunità ebraiche russe, lo accosti ad alcuni dei più grandi virtuosi del XX secolo come Vladimir Horowitz e Jascha Heifetz, la carriera musicale di George Gershwin si sviluppò in maniera del tutto diversa. Infatti, George iniziò a interessarsi alla musica a 10 anni, suonando il pianoforte da autodidatta. I buoni risultati dimostrati spinsero la sua famiglia a fornirgli un’istruzione più completa, per la quale però il ragazzo provò un’avversione sempre maggiore, al punto da sospendere dopo due anni le lezioni e a riprendere a suonare da solo.
Questa scelta poteva rappresentare la pietra tombale delle sue aspirazioni musicali, ma in realtà George non aveva rifiutato la musica, ma il modo in cui il suo maestro pretendeva di insegnargliela. In altre parole, lui non mirava a imparare a suonare le opere di Beethoven e Chopin, ma voleva scrivere canzoni con suo fratello Ira e a 21 anni ottenne il primo successo con Swanee, che venne registrata dal celebre Al Jolson e restò al vertice delle hit-parade per ben 18 settimane, vendendo oltre un milione di copie dello spartito.

Da allora la premiata ditta G&I Gershwin iniziò a sfornare un capolavoro dopo l’altro, al punto da spingere nel 1924 il direttore d’orchestra jazz Paul Whiteman a formulare una proposta destinata a cambiare la vita a George e ad aprire prospettive del tutto nuove alla musica classica. In un’epoca in cui il jazz era ancora visto come un genere ‘inferiore’, il lungimirante Whiteman ne aveva già intuito le potenzialità, al punto da commissionare a Gershwin un brano di jazz sinfonico che potesse piacere sia agli appassionati di jazz sia al pubblico snob che frequentava l’esclusiva Aeolian Hall di New York. Si trattava di una sfida molto insidiosa, che comportava rischi sia per il committente sia per l’autore, ma che – in caso di successo – avrebbe potuto imprimere una decisa svolta alla carriera di Gershwin.

Dopo aver deciso di puntare su una rapsodia che descrivesse la varietà sociale degli Stati Uniti, Gershwin portò a termine l’opera con incredibile rapidità per farla tenere a battesimo il 12 febbraio 1924. Nonostante i timori, l’opera fu accolta da un’interminabile ovazione, alla quale si unirono alcuni dei musicisti più importanti di quegli anni, tra cui Leopold Stokowski, Fritz Kreisler e Sergei Rachmaninov. Alla Aeolian Hall venne eseguita la versione per pianoforte e big band, che l’anno successivo fu trascritta una prima volta per pianoforte e orchestra da Ferde Grofé (passato alla storia per la Grand Canyon Suite) e una seconda volta nel 1942, versione che viene oggi eseguita più spesso.


Track n. 1: Un Americano a Parigi

Grazie alla Rhapsody in Blue, alla fine del 1927 Gershwin era ormai diventato un beniamino degli amanti della musica classica e l’idolo indiscusso degli appassionati di musical (genere che oltre alla gloria aveva il non trascurabile pregio di garantire consistenti entrate). Era quindi arrivato il momento di consolidare il successo anche al di fuori degli Stati Uniti.

L’occasione giunse nel marzo del 1928 quando il compositore – che si era visto commissionare una nuova opera nientemeno che dalla New York Philharmonic Orchestra – si recò a Parigi a confrontarsi con i grandi maestri europei, come Maurice Ravel e Claude Debussy, che era morto dieci anni prima ma la cui influenza era più viva che mai. Quando giunse nella Ville Lumière, Gershwin scoprì che la fama lo aveva preceduto, al punto da diventare uno dei personaggi più ambiti degli esclusivi salotti della capitale. Se questi impegni da un lato lo gratificavano, dall’altro gli tolsero il tempo e le energie per dedicarsi alla composizione dell’opera, un fatto che lo obbligò a trasferirsi nella più tranquilla Vienna, dove portò rapidamente a termine la versione pianistica di Un americano a Parigi. Per procedere con l’orchestrazione, fece ritorno in gran segreto a Parigi per immergersi nella caotica atmosfera dei boulevard.

Fu nel corso di queste lunghe passeggiate che Gershwin fece alcune delle scelte più geniali, come la decisione di inserire nell’organico orchestrali quattro clacson di automobili, che acquistò in un negozietto del centro di Parigi per portarli negli States in vista della prima esecuzione. La straordinaria ricchezza timbrica e melodica di questa partitura ne garantì in seguito il successo a Hollywood, con l’omonimo film diretto da Vincente Minnelli nel 1951 (quando Gershwin era già morto da 14 anni), che si aggiudicò ben sei Oscar. Un tema gaio ma pieno di energia ci mostra il giovane yankee vagare negli Champs-Elysées con gli occhi spalancati per la meraviglia (0:02-0:12), nel bel mezzo del traffico convulso della metropoli. Per sfuggire al caos, entra in un café tradizionale, dove viene accolto dal tema di una chanson affidato ai tromboni (1:31-1:37). Dopo questa pausa nostalgica, si inoltra nelle affollate vie del Quartiere Latino, dove viene avvicinato da una giovane entrâineuse, il cui approccio trova seducente espressione in un morbido assolo di violino (6:07-6:49). La tentazione di seguire la ragazza è forte, ma l’americano decide di declinare la proposta per venire subito dopo travolto da un’ondata di malinconia per la patria lontana incarnata dalla intensa melodia di un blues (7:06-9:39), che segna la sezione centrale dell’opera. Questo momento di delicato lirismo viene riequilibrato da un vivace ritmo di charleston (11:18-12:02), che segna l’allegro incontro con un connazionale. Nel finale Gershwin ripropone tutti i temi con l’incessante presenza dei clacson, tratteggiando un quadro grandioso della capitale francese.

Concerto in Fa
Oltre a portare fama e denaro, la Rhapsody in Blue aveva lasciato in Gershwin un sottile cruccio che lo tormentava. Il motivo di questo persistente fastidio risiedeva in alcuni giudizi, che lo esaltavano come autore di favolose melodie ma che sottolineavano le sue carenze in materia di orchestrazione (come detto, la Rhapsody era stata orchestrata da Grofé). Per mettere a tacere queste critiche, nel 1925 Gershwin decise di confrontarsi con uno dei generi cardine della letteratura orchestrale classica, ossia il concerto per pianoforte e orchestra. Rispetto alla Rhapsody, l’organico non cambiava di molto, ma in questo caso avrebbe dovuto fare i conti non con una forma (più o meno) libera come un poema sinfonico, ma strutturata in tre movimenti dal carattere contrastante basati su convenzioni maturate in oltre un secolo e mezzo. Insomma, si trattava davvero di un esame di maturità. Ovviamente, pur volendo scrivere un’opera classica, Gershwin non poteva di certo tradire se stesso, per cui, accanto a diversi elementi dei compositori classici più influenti dell’epoca, come Sergei Rachmaninov, l’opera appare legata a filo doppio al brillante idioma jazz che tanta fortuna aveva portato al compositore.

Il Concerto fu tenuto a battesimo il 3 dicembre 1925, sotto la direzione di Walter Damrosch e con Gershwin al pianoforte, ottenendo un grande successo di pubblico al quale però non corrispose quello della critica, che si rivelò divisa. Se, infatti, il critico del New York World Samuel Chotzinoff affermò «Gershwin è il solo che ci esprime autenticamente. Rappresenta il presente, con tutta la sua audacia», molto più tiepido fu il giudizio dell’impresario dei Ballets Russes Sergej Djagilev, che scrisse che nel Concerto in fa c’era «del buon jazz, ma del cattivo Liszt», una frase a dir poco curiosa da parte dell’uomo che non aveva esitato a schierarsi al fianco della rivoluzione stilistica di Igor Stravinsky.

Track n. 2: Allegro

Dopo il vigoroso incipit dei timpani seguito da un fragoroso colpo di piatti, il fagotto enuncia a mezza voce il tema di charleston (0:15-0:19), che subito dopo verrà sviluppato da tutta l’orchestra, con il puntuale ritorno dei timpani e dei piatti. Questo sfoggio di energia si acquieta improvvisamente con la lunga sezione solistica del pianoforte (1:17-3:05), i cui toni languidi vengono sottolineati dal morbido tappeto degli archi. Il successivo sviluppo dell’orchestra con l’intervento del pianoforte rientra stilisticamente nella più pura scrittura classica, ponendosi in netto contrasto con i ritmi sincopati e gli spunti blues con cui si chiude l’Allegro iniziale.

Track n. 3: Adagio – Andante con moto

Strutturato in forma tripartita, il movimento centrale rivela fin dalle prime battute la sua anima jazz con il lancinante tema spiritual esposto dalla tromba con sordina (0:23-1:26), che viene ripreso in seguito da tutta l’orchestra, fino all’ingresso del pianoforte, che introduce un più mosso motivo blues (3:27-4:10). Dopo il ritorno del tema iniziale della tromba in sordina, il pianoforte si riprende la scena con una sezione di impostazione classica, alla quale segue una meravigliosa melodia orchestrale (8:30-9:25), che in seguito viene riproposta e variata dal pianoforte. Il tempo si chiude in pianissimo, con un aforistico ritorno del primo tema.


Track n. 4: Allegro agitato

Concepito – secondo i più puri dettami classici – in forma del rondò, l’Allegro agitato finale si apre con il ritorno del nervoso tema con note ribattute del primo movimento (0:18-0:38), un’esplosione di energia che trova un efficace contrappunto nel tema lirico esposto dall’orchestra (2:49-3:04). Lo sviluppo e il continuo intrecciarsi di queste melodie conduce al grandioso finale.

Giovanni Tasso